Il progetto criminale che "Cosa Nostra" ha portato avanti nel corso del 1993 si è sostanziato nell'attentato dinamitardo consumato a Roma, in via Ruggero Fauro, il 14 maggio: nella strage di via dei Georgofili a Firenze il 27 maggio; nella strage consumata a Milano in via Palestro, il 27 luglio; negli attentati realizzati a Roma contro la Basilica di "San Giovanni in Laterano" e contro la Chiesa di "San Giorgio al Velabro", il 28 luglio. Questi cinque gravissimi episodi si vanno direttamente a collegare con un'altra stagione di stragi, che aveva insanguinato l'anno prima la Sicilia, quando avevano perduto la vita, tra gli altri, i giudici palermitani Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: il primo nella strage di Capaci del 23 maggio 1992, il secondo nella strage di via D'Amelio il 19 luglio successivo.
Quei due drammatici attentati hanno costituito il momento di riflessione da cui è stata avviata l'analisi dell'agire terroristico di Cosa Nostra, che si è estrinsecato nel corso del 1993. Si è trattato di un unico progetto criminale stragistico. I cinque eventi, infatti, alcuni dei quali vengono impropriamente definiti attentati, vanno tutti qualificati, secondo il nostro ordinamento giuridico, come reati di strage, anche se non tutti hanno causato la morte di persone, in quanto per configurare il delitto di strage è sufficiente che ognuno di loro sia stato realizzato in maniera tale da determinare pericolo per l'incolumità di un numero indeterminato di persone.
Proprio le modalità esecutive di queste stragi, tutte realizzate con l'uso di una cosiddetta auto-bomba, sono uno degli elementi oggettivi che, al di la di quelli motivazionali consentono di ricondurle ad un unico disegno criminoso. Va rilevato, peraltro, che le indagini che sono state condotte su questi delitti hanno evidenziato una costante corrispondenza tra volontà progettuale, che è alla base dell'attività stragi sta nel suo complesso, e singoli delitti. La condotta evidenziata in ognuno di essi è riconducibile alle metodologie comportamentali dei mafiosi; rilevanti, sia per il metodo utilizzato che per il raggiungimento dell'obbiettivo, riportano ad un unico progetto; l'appartenenza all'organizzazione "Cosa Nostra" della maggior parte dei soggetti, che hanno avuto un ruolo nell'esecuzione dei delitti, non fa sorgere dubbi sulla paternità di "Cosa Nostra" nella scelta di una strategia di tipo terroristico.
Per questa ragione l'analisi della dinamica investigativa, che ha portato a scoprire una strategia mafiosa alla base delle stragi e ad individuare la responsabilità di alcuni appartenenti a "Cosa Nostra", diventa un momento determinante dell'analisi del fenomeno, che, sebbene non del tutto nuovo all'esperienza investigativa, non aveva mai raggiunto un livello di tale pericolosità. Questa volta, però, la risposta istituzionale, rispetto ad analoghe esperienze del passato è stata pronta ed efficace, tanto da consentirgli oggi di poter parlare con cognizione di causa di mandanti e moventi e con sufficiente certezza di esecutori e modalità di attuazione. Probabilmente ciò è dovuto essenzialmente ad una particolare situazione che ha caratterizzato l'investigazione nel suo complesso. man mano che le indagini consentivano l'acquisizione di un benché minimo elemento oggettivo, esso veniva vagliato, riesaminato, riscontrato e valorizzato calandolo nella realtà conoscitiva di cui gli investigatori già disponevano sulla criminalità organizzata in genere e su "Cosa Nostra" in particolare. In effetti, le pregresse conoscenze investigative, arricchite in maniera sostanziale dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio, anche grazie alle rivelazioni di numerosi collaboratori di giustizia, hanno consentito di avere come quadro di riferimento uno scenario ben definito, costituito non solo dalla ricostruzione degli schieramenti criminali, ma anche dalla capacità di leggere le dinamiche interne, i processi mentali e le astuzie comportamentali tipiche dei mafiosi. Questo bagaglio di conoscenze, via via aggiornato dalle nuove risultanze investigative, è stato una specie di banco di prova, su cui venivano "testati" anche i più piccoli indizi, dando all'azione degli investigatori una logica stringente e un'efficienza continua.
In questa ottica, perciò, devono essere analizzate le varie componenti dell'investigazione su quelle che ormai per comodità stiamo chiamando semplicemente "le stragi", per comprendere l'unitarietà della strategia e dell'agire di "Cosa Nostra".
In primo luogo va detto che gli accertamenti tecnici sugli esplosivi hanno fornito dati di particolare rilevanza. Le sofisticate attrezzature utilizzate per la ricerca dei residui degli esplosivi delle cinque auto-bomba hanno portato all'individuazione di notevoli analogie di natura qualitativa e quantitativa delle varie cariche esplosive. La prima rilevante analogia tra i fatti delittuosi concerne i componenti. Gli accertamenti sui residui delle deflagrazioni hanno fatto emergere la presenza, in tutte e cinque le cariche, delle seguenti sostanze: tritolo, pentrite e T4, nonché di gelatinati da cava (c.d. ad uso civile), quali la nitroglicerina (NG), I'etilenglicoldinitrato (EGDN), il dinitrotuluene (DNT). Peraltro la particolare composizione della miscela e il peso hanno portato ad individuare analogie tra l'attentato di via Ruggero Fauro e la strage di via D'Amelio del 19 luglio 1992, nonché con un'altra, antecedente, la strage sul treno rapido 9O4 Napoli-Milano del 23 dicembre 1984, anch'essa di matrice mafiosa, per la quale è stato condannato uno di quelli che sino a qualche anno fa era uno dei maggiori esponenti del vertice di "Cosa Nostra", il noto Pippo Calò.
Va anche notato che, nei cinque attentati, la tecnica dell'auto-bomba, ha visto l'impiego di auto rubate pochissimo tempo prima (cinque ore prima, ad esempio, per via dei Georgofili) e, in quattro casi su cinque, di auto Fiat Uno (con l'eccezione di via dei Georgofili ove l'impiego della Fiat Fiorino fu verosimilmente dovuto alla maggior quantità di esplosivo, in rapporto alla maggiore entità del danno che si voleva causare).
La tecnica dell'autobomba, che riporta alla strage di via D'Amelio a Palermo e ad altre stragi realizzate da organizzazioni mafiose, integra un significativo momento unificante, mentre il poco tempo intercorso tra il furto delle auto e le deflagrazioni evidenzia l'adozione di modalità operative accuratamente studiate e collaudate, e l'esistenza di una organizzazione ramificata, presente nelle città teatro delle stragi, e capace di muoversi mimeticamente in quei grandi centri urbani con precisione e puntualità, in rapporto alla complessità delle sequenze necessarie per portare l'esplosivo, sistemarlo sulle auto rubate e collocare queste presso gli obiettivi prescelti.
Ulteriore momento unificante, per quattro dei cinque attentati (escluso quello di via Fauro, avente peraltro, come si vedrà, una specifica motivazione, coerente con la sua attribuzione alla stessa soggettività criminale) è costituito dalla coesistenza, accanto all'obbiettivo tipicamente strategico-terrorista (uccidere, senza mirare a persone individuate in ragione dei loro specifici ruoli, per diffondere il panico), della finalità di attentare al patrimonio storico-artistico del Paese: la Galleria degli Uffizi a Firenze, il Padiglione di Arte contemporanea e la Galleria d'arte Moderna in via Palestro, S.Giovanni in Laterano e S. Giorgio al Velabro a Roma.
La ricerca delle fonti di prova in ordine alle responsabilità dei singoli compartecipi hanno portato alla raccolta di elementi che consentono, sotto il profilo o soggettivo o oggettivo, di tracciare ulteriori elementi di connessione tra le varie stragi. Accanto all'accertamento tecnico-chimico e alle normali metodologie d'indagine che hanno permesso di ricostruire l'evento delittuoso, e le circostanze antecedenti o susseguenti il fatto, rilevanti ai fini delle indagini, è stata condotta una particolare attività investigativa, già positivamente sperimentata nelle indagini sulle stragi del 1992: l'analisi del traffico radiomobile. Partendo dalle considerazioni che gli autori dei delitti fossero più persone che operassero anche in punti diversi dalla scena del delitto, che avessero avuto l'esigenza di comunicare tra loro sia prima che dopo i singoli attentati, che avessero riferimenti diretti e costanti con il loro associati criminali in Sicilia, che le basi operative stabili e integrate nel territorio delle città di Roma, Firenze e Milano fossero state temporaneamente arricchite da elementi provenienti dalla Sicilia, che tutti o alcuni di essi avessero in uso dei telefoni cellulari, è stato raccolto il traffico telefonico radio mobile ritenuto utile. La compagnia telefonica italiana, la Telecom, per ragioni contabili conserva in un unico archivio elettronico i dati relativi ai cosiddetti telefoni cellulari: numero telefonico chiamato; data, ora e durata della telefonata; distretto telefonico da cui la telefonata è stata effettuata; la cella che capta il segnale proveniente da ogni telefonino in un territorio limitato. Ad esempio la città di Palermo e il suo circondario sono serviti da oltre 20 celle. Ogni cella serve un territorio che varia a seconda delle condizioni oleografiche, che favoriscono o impediscono la trasmissione delle onde elettromagnetiche. Pertanto, in centri urbani caratterizzati da variazioni di quota, le celle sono in numero maggiore rispetto a quelle che servono un territorio piatto e scarsamente abitato.
Le possibilità offerte dagli archivi elettronici della Telecom hanno consentito di raccogliere i dati relativi al traffico telefonico radiomobile effettuato in una ristrettissima fascia oraria a cavallo di ogni attentato e di ognuno dei momenti significativi emersi dalle indagini: ad esempio orario del furto dell'auto o della collocazione della stessa sul luogo dell'attentato. In tale ambito sono state selezionate ed eliminate varie categorie di utenze che per la loro natura potessero essere escluse da qualsiasi ipotesi investigativa.
Contemporaneamente, via via che le indagini hanno consentito di raccogliere nuovi elementi, sono state fissate condizioni logiche per analisi e ricerche mirate all'interno della base dati che si era venuta a creare e che man mano veniva arricchita con il traffico telefonico effettuato attraverso utenze riconducibili ai soggetti che emergevano nelle inchieste.
Per spiegare il lavoro che è stato effettuato basterà qualche esempio . Poiché l'auto usata per nascondervi l'esplosivo è stata rubata in un determinato orario e l'esplosione è avvenuta in un orario diverso, è stato accertato se le utenze impegnate nella fascia oraria (normalmente un arco temporale non superiore ai 20 minuti) del furto lo fossero anche in quello dell'esplosione. Oppure se nei due momenti era stato chiamato da utenze diverse uno stesso telefono. O, ancora, se un apparecchio, che ne aveva chiamato un secondo in occasione del furto, era stato da quest'ultimo richiamato nella fascia oraria dell'esplosione. Oppure tutte le chiamate ripetute prima e dopo il singolo fatto e così via.
E' evidente che trattandosi di un archivio elettronico composto da circa sette milioni di " records", l'analisi è stata indirizzata essenzialmente a ridurre il numero delle utenze a pochi casi suscettibili di riscontri con altri momenti delle indagini o di servire da supporto alle singole attività investigative. Va considerato, che questo archivio, arricchito dalle risultanze delle varie intercettazioni telefoniche effettuate nel medesimo ambito investigativo, ha anche altre articolazioni. Infatti sono stati raccolti i dati di tutte le persone che hanno preso alloggio in alberghi delle città di Roma, Firenze e Milano nei giorni delle stragi, di tutti coloro che in tale periodo hanno noleggiato autovetture nelle stesse città oppure hanno effettuato voli da e per la Sicilia, sempre in date compatibili alla partecipazione alle varie fasi progettuali o attuative degli attentati.
L'elaborazione dei dati informatizzati ha avuto un importate ruolo nelle indagini sulle stragi, soprattutto perché al suo interno è stata sviluppata una notevole capacita di analisi del traffico telefonico dei radio mobili. Per ogni persona sospetta emersa nel corso delle indagini, è stato cercato il numero dell'apparecchio radio mobile che eventualmente avesse in uso. Spesso non era a lui intestato e, alcune volte, era addirittura un telefono "clonato", cioè un apparecchio che usa il numero seriale di un telefono di un altro utente, non sempre ignaro della contraffazione.
Anche la ricerca di tali numeri, che spesso non poteva avvenire ricorrendo agli elenchi telefonici o alla captazione del numero quando l'utente usava il telefono cellulare, che addirittura poteva essere quello di un latitante, è stata effettuata attraverso l'analisi dei dati telefonici. Per scoprire quale fosse il numero usato ed anche per analizzare il traffico telefonico del singolo utente, viene costruita la rete delle relazioni personali del soggetto. Se si deve scoprire il numero, ad esempio, si cerca quali sono i cellulari che abitualmente chiamano le utenze fisse dei genitori o dei fratelli o della fidanzata delle persone sospese e così via. Quando si ha il traffico telefonico di un radiomobile è possibile, in linea di massima, tracciare un profilo dell'utente, a secondo delle caratteristiche: tipo di persone contattate, orari delle chiamate, località da dove chiama, numeri chiamati che ricorrono abitualmente. Con questa tecnica è possibile anche dividere il traffico telefonico fatto dall'utente legittimo dell'apparecchio da quello effettuato a mezzo del clone. Va precisato che questo lavoro ha un lavoro meramente orientativo delle indagini, ma non è da considerare vincolante, salvo casi particolari. Ad esempio, avendo individuato un apparecchio clonato, che l'utente legittimo non usava se non raramente, è stato verificato se uno dei numeri chiamati dal clone fosse stato ormai sottoposto ad intercettazione telefonica. Accertata la circostanza è stata reperita la bobina su cui era stata registrata quella telefonata, che nella specie era risultata non utile alle indagini, ed è stata individuata la voce di colui che usava l'apparecchio clonato. O attraverso la clonazione fonica o grazie al riconoscimento fatto da qualche collaboratore di giustizia, e stato dato, con valenza probatoria, un nome all'utilizzatore dell'apparecchio clonato.
Questa dissertazione sulla telefonia cellulare è un passaggio indispensabile per poter chiarire come si è sviluppata concretamente l'azione investigativa sulle stragi, che poggia fondamentalmente la sua valenza su due specifiche risultanze: le dichiarazioni di alcuni collaboratori e l'analisi del traffico telefonico radio mobile.
Prima di fornire un quadro dei vari passaggi dell'investigazione vanno brevemente ricostruiti i cinque eventi delittuosi.
- Alle ore 21,37 del 14.5.1993, in via Ruggero Fauro, a Roma, all'altezza del civico 62, esplodeva un'autovettura sulla quale era stata collocata una miscela esplosiva di pentrite, T4 e tritolo. La deflagrazione avveniva mentre transitava l'autovettura sulla quale alloggiavano il giornalista Maurizio Costanzo e Maria De Filippi. L'esplosione causava il ferimento di persone, nonché ingenti danni ad autovetture e immobili. La carica esplosiva era stata collocata all'interno di un'autovettura Fiat Uno, oggetto di furto in Roma tra le ore 19.00 dell'11 e le ore 05,00 del 12 maggio 1993.
- Alle ore 01.02 del 27.5.1993 nella via dei Georgofili a Firenze, esplodeva un'autovettura sulla quale era stata collocata una miscela esplosiva composta da pentrite, T4 e tritolo. La deflagrazione causava la morte di 5 persone e il ferimento di altre 37, nonché ingenti danni all'Accademia dei Georgofili, il complesso Monumentale degli Uffizi, agli edifici circostanti e alle autovetture in sosta. La carica esplosiva era stata collocata all'interno di una Fiat Fiorino, oggetto di furto in via della Scala a Firenze, la sera precedente.
- Alle ore 23,14 del 27.7.1993 in via Palestro, a Milano, esplodeva un'autovettura sulla quale era stata collocata una miscela di pentrite, T4 e tritolo. La deflagrazione causava la morte di 5 persone e il ferimento di altre 13, nonché la distruzione dell'immobile adibito a Padiglione di Arte Contemporanea e delle autovetture in sosta. La carica esplosiva è stata collocata all'interno di un'autovettura Fiat Uno, oggetto di furto in data 23.7.1993 in via Baldinucci a Milano.
- Alle ore 00.03 del 28.7.1993, a Roma, nel piazzale antistante il vicariato di piazza San Giovanni in Laterano e alle ore 00.08 in via del Velabro, esplodevano due autovetture, sulle quali era stata collocata una miscela esplosiva composta da pentrite, T4 e tritolo. In entrambe gli eventi, la deflagrazione causava il ferimento di persone, nonché ingenti danni agli edifici adiacenti ed alle autovetture in sosta. Le cariche esplosive erano state collocate in entrambi i casi all'interno di autovetture Fiat Uno, oggetto di furto nella capitale rispettivamente la prima il 26 e la seconda tra il 26 e il 27 luglio 1993.
I primi elementi significativi in ordine alle indagini emergevano, per quanto riguarda via Fauro, dalle testimonianze che consentirono di individuare la presenza di un pericoloso latitante della famiglia mafiosa di Brancaccio nella stessa via poco prima dell'attentato. Per quanto riguarda via dei Georgofili, dall'accertata presenza in esercizi ricettivi della città di Firenze di elementi di sicura estrazione mafiosa, collegabili al furto del Fiorino usato per preparare l'auto-bomba. Per quanto riguarda Via Palestro, dal diretto collegamento di questi ultimi con un altro sospetto mafioso arrestato nel novarese per furto di una Fiat Uno alla vigilia della strage, che venne trovato in possesso di numero di telefono di un cellulare che era in uso ad uno dei personaggi gravitanti nel gruppo mafioso capeggiato dal latitante di via Fauro, oltre ad essere in contatto con un'utenza milanese a cui facevano capo elementi di primo piano di Cosa Nostra. Per quanto riguarda San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro, dai positivi riscontri acquisiti in sede investigativa dalle dichiarazioni di un collaboratore di Giustizia.
Gli spunti investigativi individuati in tempi diversi e sviluppati attraverso attività investigative mirate hanno mano mano consentito di arricchire il panorama investigativo, da un lato in ordine a fonti di prova che consentivano di fissare la responsabilità dei singoli eventi delittuosi a carico di determinati autori e dall'altro nel ricostruire i collegamenti tra i vari eventi non solo sul piano oggettivo, come attraverso gli accertamenti tecnici esplosivistici, ma anche su quello soggettivo, riscontrando la presenza dei soggetti sul luogo delle stragi o i collegamenti operativi tra di loro. Proprio la localizzazione in un determinato territorio di un soggetto, fatta a distanza di tempo, è stata favorita dall'analisi del traffico telefonico radiomobile. Anche i collegamenti tracciati tra i vari soggetti, che hanno concorso a ricondurre ad un contesto unitario le cinque stragi, sono stati favoriti dalla medesima analisi.
A tutto ciò va aggiunto, che l'azione investigativa condotta dagli organismi specializzati in indagini sulla criminalità organizzata, quali la D.l.A., lo S.C.O. e il R.O.S., insieme alle strutture investigative territoriali interessate, ha trovato costanti momenti di coordinamento, sia quando erano tre diverse Procure Distrettuali Antimafia a occuparsi dei singoli episodi, sulla base della competenza territoriale, sia quando per connessione sono state tutte e cinque unificate presso la Procura Distrettuale di Firenze, dove si era verificato il primo degli episodi più gravi, cioè la morte dl più persone.
Indagini di tale complessità e di tale difficoltà non potevano certo prescindere da un momento di unitaria gestione, che ha attraversato varie fasi. In primo luogo gli organismi centrali della Polizia di Stato e dell'Arma dei Carabinieri hanno accentrato le informazioni raccolte in sede locale, a Roma, Firenze e Milano, costituendo un punto di scambio dei dati, a cui ha concorso la D.l.A., avendo anch'essa raggiunto, attraverso un diverso iter, la consapevolezza della matrice mafiosa delle stragi. In tale fase le diverse Procure Distrettuali, oltre a collegarsi tra loro, hanno trovato un momento di fusione nel coordinamento della Direzione Nazionale Antimafia. In questa fase, peraltro, i dati relativi al traffico telefonico radiomobile, alle presenze in esercizi ricettivi delle città interessate, al noleggio di autovetture e alle liste passeggeri dei voli da e per la Sicilia, erano stati immediatamente accentrati presso il Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, che provvedeva a elaborare le informazioni sulla base delle richieste che pervenivano dai singoli inquirenti. Quando, poi, si è passati alla fase conclusiva della prima parte delle investigazioni, gli organismi di polizia giudiziaria hanno raccolto in unico documento il loro lavoro, mettendolo a disposizione di tutte le Procure interessate, che nel frattempo avevano avviato un procedimento di riunificazione dei cinque processi presso la Procura distrettuale di Firenze.
Prima di continuare ad esaminare le varie fasi dell'attività investigativa concernente le stragi dal 1993, è necessario fare cenno ad alcuni dati che costituiscono la base comune che ha condotto gli organismi investigativi a privilegiare l'ipotesi della comune "matrice mafiosa" e l'Autorità giudiziaria ad unificare tutte in unico processo.
Il 31 gennaio 1992 la Corte di Cassazione ha riconosciuto "l'esistenza di una organizzazione criminosa connotata da una struttura di tipo verticistico, "ribadendo che il sodalizio criminoso si articola in precisi schemi organizzativi caratterizzati da raggruppamenti di tipo verticistico, a loro volta coordinati in sistemi organizzativi facenti capo ad una direzione centralizzata...". Questa sentenza ha confermato quella che era l'ipotesi accusatoria del cosiddetto maxi processo di Palermo, facendo inoltre diventare definitive numerose condanne.
I vertici di "Cosa Nostra" non potevano non comprendere che quella sentenza abbatteva un pilastro fondamentale per la sopravvivenza dell'organizzazione stessa e costituiva il segnale inequivocabile della fine di un sistema che per lungo tempo aveva assicurato l'impunità.
Era, infatti, evidente che la sentenza, decretando non l'esistenza di "Cosa Nostra", ma anche il principio della responsabilità del suo organo di governo per i cosiddetti ''delitti eccellenti", aveva fatto crollare il sistema di collusioni, connivenze e cointeressenze che negli anni aveva contribuito a garantirne l'esistenza.
Il 12 marzo successivo, durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del 5 e del 6 aprile 1992, venne ucciso a Palermo l'On. Salvo Lima, indicato come il referente politico di "Cosa Nostra" e legato a Ignazio Salvo, condannato con sentenza passata in giudicato per associazione di tipo mafioso.
Il delitto dell'Europarlamentare segnò l'avvio della "campagna militare" di "Cosa Nostra" con omicidi di uomini di primo piano dello stato, commessi con azioni di vero e proprio terrorismo, destinate a sollevare grande allarme sociale.
Il 23 maggio successivo si verificò la strage di "Capaci", il 19 luglio quella di via D'Amelio. Destò, tuttavia, non poche perplessità la scelta temporale che era stata fatta nel colpire anche il giudice Borsellino. L'azione, infatti, compiuta proprio mentre si discutevano i nuovi provvedimenti antimafia, non poteva che provocare una accelerazione dell'iter e determinare l'adozione di misure particolarmente severe.
In assenza di apparenti motivi di urgenza, il comportamento di "Cosa Nostra", sempre attenta ad evitare di provocare reazioni troppo incisive da parte dello Stato, apparve anomalo. Si intravvide, di conseguenza, la volontà di perseguire scopi ancora non compiutamente delineati sul piano probatorio, ma certamente di importanza tale da giustificare l'assunzione di sacrifici anche rilevanti, specie se considerati come essenziali per la vita stessa dell'organizzazione.
Di fatto, subito dopo la strage di via D'Amelio vi è stata una forte reazione dello Stato che, superate le iniziali remore, si concretizzava nella emanazione di nuove norme, tra le quali assumeva particolare rilevanza l'introduzione dell'art. 41 Bis dell'Ordinamento Penitenziario, nonché un'azione più incisiva a favorire il "pentitismo".
Dal 19 settembre 1992 al 14 maggio 1993 (omicidio del giudice Borsellino e attentato di via R. Fauro) quella che sembrava una strategia destinata a non fermarsi subì, invece, una lunga pausa d'arresto, interrotta soltanto dall'omicidio di Ignazio Salvo nel mese di settembre 1992, quasi come logica conseguenza di quello di Salvo Lima.
Probabilmente gli effetti della reazione dello Stato dopo l'omicidio del giudice Borsellino erano stati di gran lunga superiori alle previsioni di "Cosa Nostra" che, forse non aveva preso in considerazione le forti limitazioni delle comunicazioni che sarebbero state imposte ai detenuti e che hanno notevolmente ostacolato le consultazioni che precedono ogni decisione.
Nel febbraio-marzo del 1993 si raccolgono i primi segnali di una rinnovata volontà di attacco con attentati dinamitardi e il 14 maggio 1993, a distanza di circa 10 mesi dalla strage di via D'Amelio, in via Ruggero Fauro, nella capitale, venne fatta esplodere un'auto-bomba proprio mentre transitava, a bordo di un'autovettura il giornalista Maurizio Costanzo.
Il 27 maggio 1993, a sole due settimane dall'attentato di via Fauro, un'auto-bomba collocata nel centro storico di Firenze provocò una strage di vittime innocenti, danneggiando gravemente il patrimonio artistico e storico della città.
Il gesto criminale si differenziava da quello compiuto in via Fauro perché non mirato a colpire una determinata persona fisica, ma a scuotere profondamente l'opinione pubblica, affidato più alla fama dei beni culturali che sarebbero stati colpiti che al numero delle vittime che sarebbero state coinvolte. Nella circostanza, il ripetuto impiego di un'auto-bomba consentiva di ipotizzare fondatamente che l'attentato di via Fauro e quello di via dei Georgofili facessero parte di un unico disegno criminoso.
La sequenza degli attentati proseguì con gli episodi di Milano e Roma del 27 e 28 luglio 1993.
L'impiego di un'auto-bomba, dato squisitamente tecnico di un "modus operandi" ripetuto per ben 5 volte consecutive con analogie anche in ordine al quantitativo e alla composizione del materiale esplodente, faceva consolidare il convincimento che ci si trovava di fronte alla realizzazione di un progetto di tipo terroristico, concepito nell'ambito di un unico disegno strategico.
In sede di analisi l'attenzione, senza tuttavia scartare a priori ogni altra possibile matrice, andava ad incentrarsi ancora una volta sulla criminalità organizzata di tipo mafioso, in particolare su "Cosa Nostra" e sulle organizzazioni similari ad essa legate.
Era stato osservato, infatti, che una serie di segnali, quali i reiterati attacchi ai collaboratori di giustizia, il crescente clima di insofferenza registrato all'interno dell'ambiente carcerario, dovuto alle restrizioni imposte dall'art. 41 Bis della legge sull'Ordinamento Penitenziario, concordavano con le già richiamate dichiarazioni di collaboratori, che avevano avuto modo di recepire l'esistenza di progetti stragisti da parte di appartenenti a "Cosa Nostra" ed altre organizzazioni mafiose, e con notizie confidenziali recepite dagli investigatori all'interno dell'organizzazione siciliana secondo le quali gli attentati erano stati ideati ed eseguiti dalla stessa "Cosa Nostra", nel quadro di un progetto tendente a destabilizzare lo Stato ad allentare la stretta esercitata mediante i collaboratori di giustizia e l'applicazione dell'art. 41 bis.
L'attività investigativa immediatamente svolta consentiva di raccogliere elementi di particolare interesse, che confermavano la matrice mafiosa degli attentati e riscontravano ampiamente le acquisizioni confidenziali. Alloggiano in un albergo del capoluogo toscano, la notte della strage, elementi che sono sicura emanazione di "Cosa Nostra"; la loro presenza a Firenze appare subito fortemente sospetta, perché il Fiorino viene rubato in una strada parallela a quella ove è situato l'albergo, perché le ragioni e le circostanze del loro viaggio appaiono pretestuose, infine perché uno dei sospetti è legato alla famiglia mafiosa di "Cosa Nostra" facente capo ai Madonia di Resuttana, che sono noti all'interno di "Cosa Nostra" come "i terroristi", in quanto a loro viene fatta risalire la "stagione delle bombe" di "Cosa Nostra", una serie di attentati consumati a Palermo con l'uso di auto-bombe oltre trent'anni prima.
Un'importante conferma del proposito di "Cosa Nostra" di attuare attentati contro beni appartenenti al patrimonio storico-artistico nazionale, si acquisiva successivamente grazie alle dichiarazioni di un detenuto che, dopo la strage di via D'Amelio, aveva appreso che la mafia aveva intenzione di porre in essere attentati contro beni culturali di importanza nazionale.
Ulteriori dichiarazioni di collaboratori, poi, spiegavano che la strategia stragista di "Cosa Nostra" era finalizzata al raggiungimento dei seguenti obiettivi:
a) disincentivazione della normativa sui collaboratori di giustizia ed abbattimento della loro credibilità;
b) abolizione delle restrizioni abbattutesi sulla popolazione carceraria con l'avvento dell'art.41 Bis;
c) alleggerimento delle posizioni processuali nell'ambito dei procedimenti penali in corso a carico degli esponenti dell'organizzazione.
Nello stesso tempo emergeva che la strategia intimidatoria di "Cosa Nostra", oltre a puntare su obiettivi simbolici, così noti da assicurare la massima cassa di risonanza, si esplicava anche colpendo singoli soggetti, individuati come avversari accaniti dell'organizzazione; pertanto rientravano nello stesso disegno la surripetuta auto-bomba diretta contro Maurizio Costanzo e l'omicidio di Padre Giuseppe Puglisi, parroco del quartiere "Brancaccio, la cui responsabilità va attribuita alla famiglia "Graviano".
Il coinvolgimento della famiglia di Brancaccio, capeggiata dai fratelli Graviano, trova, poi, una serie di conferme che testimoniano la diretta partecipazione degli stessi ad alcune delle stragi, dando il senso del diretto coinvolgimento dei vertici di "Cosa Nostra", di matrice "corleonese", nella esecuzione degli attentati. Proprio questo è un dato di particolare interesse, se si considera che in occasione di delitti particolarmente importanti, come quelli che vengono definiti "eccellenti", intervengono direttamente i capi di Cosa Nostra, anche quando il loro ruolo operativo è del tutto marginale. Si può far l'esempio dell'omicidio del Dr Ninni Cassarà funzionario di Polizia che lavorava a Palermo, quando, nell'agosto del 1985, sulla strada, ove killer muniti di kalashnikov uccidevano il funzionario e il suo autista, vi erano due capi famiglia, vecchi e ammalati, come Francesco Madonia e Giuseppe Gambino, i quali non avevano alcun ruolo operativo nell'esecuzione del delitto, ma con la loro presenza si assumevano la paternità dell'azione di fronte a tutta "Cosa Nostra".
La documentata presenza di membri della famiglia di Brancaccio anche nelle stragi del 1993 deriva da ricognizioni fotografiche fatte da testimoni oculari, ai quali, però, le fotografie dei sospetti sono state mostrate solo quando le risultanze investigative li avevano portati all'attenzione degli investigatori. Tale interesse era maturato sulla scorta dell'analisi del traffico telefonico cellulare effettuato da utenze a loro collegabili. Lo spunto investigativo, poi era diventato di fondamentale importanza quando le correlazioni individuate avevano evidenziato stretti rapporti con una base milanese di "Cosa Nostra", già interessata ad un progetto di strage nel marzo 1993, sventato grazie all'arresto di uno degli attentatori, che, poi, più recentemente ha iniziato a collaborare.
Della massima importanza sono, poi, i risultati investigativi, conseguiti ancora una volta attraverso l'analisi del traffico telefonico radiomobile di alcuni dei soggetti su cui si è andata ad appuntare l'attenzione degli investigatori, perché la loro presenza in aree sensibili o i loro contatti con elementi, nei cui confronti gravano seri sospetti, sono stati acquisiti nel corso di indagini svolte dagli organismi investigativi in ambiti criminali simili, ma per ipotesi delittuose differenti. Queste circostanze hanno permesso di valutare indizi sfuggiti all'attenzione degli investigatori, che privi di elementi di valutazione non avevano loro attribuita alcun valore. Quando, poi, il collegamento emerso ha portato a riesaminare il materiale investigativo acquisito e scartato, sono stati rilevati elementi di pregevole interesse nell'attività investigativa connessa alle stragi.
La collaborazione, poi, di un pregiudicato palermitano, arrestato a Roma nel maggio del 1994, ha offerto spunti determinanti per individuare i momenti salienti della preparazione degli attentati di Roma del 28 luglio 1993. Così il quadro investigativo, sotto l'aspetto della logica che collega gli episodi tra loro e riconduce ad unità la responsabilità non solo ideativa, ma in buona sostanza anche operativa delle stragi, è pervenuto ad un suo momento di sintesi, che, senza alcuna pretesa di completezza, consente di poter oggi affermare che sulle stragi si è fatta chiarezza. Siam ben lungi da poter dire chiuse le investigazioni: molti sono ancora i punti che vanno probatoriamente dimostrati e non tutte le posizioni sono state definite. Quel che però appare chiaro è che: esistono fonti di prova, in buona parte di natura territoriale, che fanno risalire ad un progetto terroristico di "Cosa Nostra" le stragi del 1993; sono stati rilevati dati certi in ordine al coinvolgimento nella loro esecuzione di appartenenti allo stesso sodalizio mafioso; alcuni di essi rivestono nell'organizzazione un ruolo di primo piano che attribuisce alla loro presenza, al di là di tutti gli altri riscontri investigativi acquisiti, la certezza del coinvolgimento di "Cosa Nostra" nelle cinque stragi consumate a Roma, Firenze e Milano nel 1993.